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Coi discepoli Gesù è un buon coach: non ama l’efficienza, ma le relazioni

Antonio Spadaro

Sat Jul 17 2021 22:00:00 GMT+0000 (Coordinated Universal Time)

Prima scena: c’è grande movimento (Mc 6,30-34). Gli apostoli si riuniscono attorno a Gesù per ascoltarlo e riferirgli tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. È una scena calda, intima, ma anche piena di entusiasmo e forse esaltazione.

Prima scena: c’è grande movimento (Mc 6,30-34). Gli apostoli si riuniscono attorno a Gesù per ascoltarlo e riferirgli tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. È una scena calda, intima, ma anche piena di entusiasmo e forse esaltazione. Gesù sapeva bene quel che avevano insegnato i suoi dodici apostoli: era il suo Vangelo. Gesù immaginava quel che avevano fatto: affrontato il male, guarito, consolato. Non c’era bisogno di raccontarselo! Però la fede è parlare, dialogare, affidare e confidare in forma di parola e di racconto. Gli apostoli raccontano la loro esperienza. Se non ci fosse il racconto che cosa sarebbe la vita? E la fede, poi? Sarebbe l’adesione alle regole di un manuale. Il raccontare e il raccontarsi, invece, infrange sempre le regole perché contiene le sbavature della vita: gli eccessi e le depressioni, le frustrazioni e i desideri. Il credente è sempre un narratore. E la preghiera è sempre un racconto.
Seconda scena: c’è confusione all’intorno: erano infatti molti quelli che andavano e venivano e gli apostoli non avevano neanche il tempo di mangiare. Sono immagini di impegno pieno di successo: c’è tanta gente che cerca il gruppo. Le immagini sono sfocate, mosse. Il Maestro è calmo, li ascolta e poi dice la sua. Ma non replicando né elogiando né dando consigli per il futuro come fosse un buon coach. Al contrario dice semplicemente: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. Bisogna far tacere le parole e di stare in disparte a riposare. Gesù non ama l’efficienza, ma la relazione e il senso. Gli apostoli non sono divi in tournée, né abili venditori ambulanti di idee. Riposare significa far sì che quel racconto di azioni e insegnamenti entri profondamente nella vita di chi li ha vissuti. Spesso la nostra vita è uno scattare immagini fotografiche che poi restano nere perché non sviluppate. Entrare in un “ritiro”, significa entrare nella camera oscura per vedere i colori e i contorni della vita.
Quando si percepisce di “non avere il tempo” – come sta accadendo agli apostoli – allora bisogna fermarsi per valutare dove si è e che cosa si sta facendo. Bisogna rimettere a fuoco. La missione di Gesù richiede il riposo che riconcilia con se stessi, schiude il senso e fa capire. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Ma la storia non finisce qui.
Terza scena: molti vedono i movimenti di Gesù e dei suoi e capiscono quale sarà la loro meta. Si mettono in cammino e li precedono. La barca che solca l’acqua non supera il desiderio che si comunica ai piedi di chi intende seguire il Maestro. La gente ha sete. Così Gesù, sceso dalla barca, vide una grande folla, ebbe compassione di loro perché erano come pecore che non hanno pastore. Marco vede Gesù che vede la folla e si ferma con loro a parlare, insegnando. Marco punta agli occhi di Gesù e coglie lo sguardo del pastore. E legge i suoi sentimenti.
C’è, infatti, qualcosa che interferisce direttamente con i piani fatti. C’è un sentimento che supera il desiderio di Gesù di trovare un tempo di riposo: la compassione per un gregge disperso. Questa è l’immagine che commuove Dio: la dispersione, il caos, la mancanza di orientamento, lo spaesamento. La “compassione” di Gesù è in realtà – secondo il termine greco – un fremito emotivo, viscerale davanti a un popolo allo sbando come lo è un gregge senza pastore. Non un sentimento, ma un istinto. È l’istinto divino che “attiva” Dio e lo muove a essere quel che è: pastore che si prende cura di un gregge disperso. Il nostro spaesamento seduce Dio. Infallibilmente.

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