L’abbraccio e il bacio sono i due atti che più di ogni altro iniziano all’amore.
Chi ha provato, almeno una volta in vita, amore, sa che il vocabolario e la grammatica fondamentale dell’amore sono fatti di abbracci e di baci. «Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola» (Is 50,4) dice il profeta Isaia, e in effetti chi è stato iniziato alla lingua dell’amore, sa come offrire allo sfiduciato parole di cura, di sollievo dalle ferite.
Ma come fare se gli abbracci ci risultano difficili o addirittura impossibili?
La situazione di pandemia che stiamo vivendo, in cui gli abbracci non ci sono impossibili, ma ne siamo comunque impossibilitati, forse ci può insegnare qualcosa anche sugli abbracci negati.
Lo spazio di sospensione e di attesa è un vissuto che può trasfigurare ai nostri occhi l’abbraccio, perché se l’attesa dell’abbraccio non è subita, ma coltivata è il desiderio a emergere più chiaramente, e il desiderio non mortifica, ma amplifica la forza dell’abbraccio. L’attesa dell’abbraccio è estensione dell’abbraccio, l’attesa è sia prolessi che analessi dell’abbraccio, perché chi desidera ricorda e chi ha memoria sa attendere.
L’attesa a sua volta ci insegna che, quando sappiamo cos’è un abbraccio, non possiamo sopportare a lungo i suoi surrogati. Gli abbracci virtuali sono certamente utili per non avvertire una separazione incolmabile, ma alla lunga possono allontanare.
L’attesa invece ci insegna a leggere l’impronta dell’abbraccio dell’altro nel nostro corpo, ed è quell’impronta, quel calco, quel vuoto che diventa per noi la presenza dell’altro nella sua assenza, una presenza che nessuna virtualità mediatica può colmare, un’assenza che se riempita con altro finisce per rivelarsi un inganno.
Bisogna alimentare il desiderio e questo si nutre anche di assenza, ma quel vuoto riverbera della presenza, le nostre braccia ancora sentono il calore del corpo dell’altro.
Sandra e Gimmi
Comments