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I sinodi sono da sempre un terreno di scontro nella chiesa

Giovanni Maria Vian

Sun Feb 19 2023 11:15:00 GMT+0000 (Coordinated Universal Time)

In ottobre si terrà in Vaticano la prima parte del sinodo sulla «chiesa sinodale». Sembra un gioco di parole, se non addirittura un parlarsi addosso, ma nelle intenzioni del papa l’obiettivo è tanto antico quanto ambizioso [...]

In ottobre si terrà in Vaticano la prima parte del sinodo sulla «chiesa sinodale». Sembra un gioco di parole, se non addirittura un parlarsi addosso, ma nelle intenzioni del papa l’obiettivo è tanto antico quanto ambizioso: la riforma dell’intera chiesa – ecclesia semper reformanda, cioè «va sempre riformata», si ripete almeno dal medioevo – grazie a un metodo che risale alle origini del cristianesimo.

Una seconda tappa di questo processo si terrà nell’ottobre del 2024. Intanto, entro la fine di marzo si concluderanno le sette assemblee continentali (due per l’America e due per l’Asia) che stanno tirando le fila della fase locale, aperta nell’ottobre del 2021.

Il nodo tedesco

L’assemblea per l’Europa si è da poco conclusa a Praga, dove sono confluite istanze reali dai dibattiti svoltisi in diocesi e parrocchie. Voci naturalmente non unanimi, se non per la ripetuta denuncia degli abusi e la richiesta, trasversale, di uno spazio maggiore per le donne, che costituiscono la maggioranza dei battezzati ma restano al margine della chiesa.

L’interesse dell’opinione pubblica è stato però molto scarso, ben diverso da quello suscitato dalle notizie mediaticamente ben più succose riguardanti il «cammino sinodale» (synodaler Weg). Iniziato in Germania già alla fine del 2019, il sinodo tedesco – così viene impropriamente chiamato – ha infatti causato più di un attrito con Roma, intervenuta già diverse volte a frenare un’accelerazione ritenuta eccessiva fino ad apparire scismatica: come sulla benedizione di coppie omosessuali, per limitarsi a un punto dove l’attenzione mediatica è appunto acuta.

Sul nodo tedesco è tornato a esprimersi lo stesso pontefice, nella lunga intervista con l’Associated Press pubblicata il 25 gennaio. In modo certo colloquiale, ma in termini aspramente critici: «L’esperienza tedesca non aiuta, perché non è un sinodo, un cammino sinodale sul serio, è un cammino cosiddetto sinodale, ma non della totalità del popolo di Dio, bensì fatto da élite».

Immediatamente, alle sferzanti critiche papali ha risposto per le rime il vertice del Comitato centrale dei cattolici tedeschi, potente organismo composto da laici. Ma già alcuni mesi prima del suo inizio, nel 2019, papa Bergoglio aveva scritto di persona una lunga lettera, costatagli sì «un mese», ma formulata in termini piuttosto vaghi.

La stagione postconciliare

Nell’intervista Francesco ha fatto risalire questa nuova stagione a quando, verso la fine del concilio, Paolo VI «si rese conto, o lo sapeva già ma non lo disse, che la chiesa latina aveva perso la dimensione di sinodalità». Nel 1965, tre mesi prima di concludere il Vaticano II, papa Montini istituì infatti il Sinodo dei vescovi, una rappresentanza dell’episcopato mondiale che potesse aiutare il pontefice. Alcune settimane dopo, un decreto conciliare avrebbe affermato che il neonato organismo, presieduto dal papa, «dimostra che tutti i vescovi sono partecipi, in gerarchica comunione, della sollecitudine della chiesa universale». E un ventennio più tardi il nuovo Codice di diritto canonico tratterà del Sinodo dei vescovi al terzo posto: dopo il papa e l’episcopato, prima del cardinalato.

In oltre mezzo secolo, dal 1967 il Sinodo dei vescovi si è riunito in media ogni due o tre anni, per una trentina di volte, in assemblee ordinarie o straordinarie che hanno ogni volta coinvolto circa duecento vescovi, quasi tutti eletti e solo in parte scelti da Roma.

Via via, il meccanismo sinodale è stato ritoccato per tentare di ovviare ai limiti che emergevano. Rilevanti sono stati lo snellimento voluto nel 2006 da Benedetto XVI per permettere un dibattito meno ingabbiato, quindi la riforma disegnata dalla costituzione apostolica Episcopalis communio del 2018. Questo documento, pur nel quadro di un organismo riservato ai vescovi, vuole rendere il Sinodo dei vescovi sempre più «uno strumento privilegiato di ascolto del popolo di Dio», cioè soprattutto dei fedeli laici, che vi sono ammessi, ma in misura ridottissima e solo come «uditori».

Va comunque riconosciuto che in poco più di mezzo secolo i sinodi finora celebrati hanno contribuito a sviluppare la collegialità episcopale. Questa dimensione caratterizza il cristianesimo fin dai primi decenni della sua storia, e in età contemporanea è stata ripresa e accentuata nel cattolicesimo dal Vaticano II allo scopo di bilanciare l’assoluta supremazia papale che era stata definita nel 1870 da un altro concilio, il Vaticano I.

Un metodo in evoluzione

Il termine stesso – sýnodos, in greco «cammino comune», reso dal latino concilium – esprime questo metodo, che si è evoluto nella storia. Ma se sinodo e concilio sul piano terminologico sono termini equivalenti, le vicende storiche e gli sviluppi dottrinali delle diverse confessioni hanno distinto queste assemblee, in genere composte soprattutto da vescovi. I sinodi sono riunioni locali, i concili (denominati ecumenici o, con diversa sfumatura, generali) rappresentano idealmente l’intera ecumene cristiana. Ancora diverso è invece, come si è visto, il nuovo Sinodo dei vescovi. Sinodi e concili sono comunque stati sempre attraversati da tensioni più o meno forti sul loro reale potere.

Il primo caso, avvolto nell’idealizzazione delle origini, risale addirittura a un ventennio dopo la crocifissione di Gesù: intorno all’anno 50 si tiene infatti il cosiddetto concilio di Gerusalemme, descritto dall’evangelista Luca nel quindicesimo capitolo degli Atti degli apostoli con tratti edulcorati, ma non tali da nascondere la durezza del dibattito in quella comunità. Il nodo da sciogliere era infatti decisivo per l’espansione del cristianesimo, perché si discuteva se fosse necessario imporre ai convertiti dal paganesimo la circoncisione e le altre prescrizioni ebraiche. Prevalse invece, grazie a una soluzione di compromesso, la linea di apertura ai pagani, sostenuta soprattutto da Paolo.

Nell’antica galassia cristiana – costituita da una federazione di chiese e dove il primato romano, presto riconosciuto, si afferma però solo progressivamente – la prima notizia di «fedeli» (quindi presumibilmente non solo vescovi e clero) riuniti «di frequente e in diversi luoghi» risale alla metà del II secolo ed è relativa all’Asia, cioè a territori oggi compresi nell’attuale Turchia. Sinodi invece quasi solo di vescovi si succedono nei decenni successivi anche in Palestina e nelle principali sedi: Antiochia in Siria, Alessandria in Egitto, Cartagine, Roma, che punta a imporsi.

Tutto cambia con Costantino, l’imperatore che nel 325 convoca e presiede il primo dei concili poi definiti ecumenici: quello di Nicea, il cui diciassettesimo centenario coinciderà con il giubileo romano. L’importanza per la fede cristiana dei primi – oltre il Niceno, il primo Costantinopolitano del 381, l’Efesino del 431 e il Calcedonese del 451 – è tale che papa Gregorio Magno afferma ai patriarchi orientali, in una lettera sinodica del 591, «di accogliere e venerare come i quattro libri del santo vangelo i quattro concili», che teologicamente sono riconosciuti e condivisi dalla maggioranza delle confessioni cristiane. A convocarli e presiederli, fino al Niceno II del 787 (il settimo considerato ecumenico), è sempre l’imperatore, mentre il papa di Roma, mai presente, invia suoi rappresentanti e ne approva poi gli atti.

Le divisioni

Molto diversificata tra oriente e occidente è la storia delle assemblee successive, che si moltiplicano, mentre il divario tra le due principali parti del mondo cristiano si allarga sempre più. Sono vicende intricate quelle dei concili e dei sinodi, comunque importanti per l’evoluzione delle confessioni cristiane. Importanza decisiva hanno però i dibattiti dei teologi e dei canonisti medievali, soprattutto quando in occidente, di fronte a tre papi in conflitto tra loro, la via del concilio appare l’unica soluzione. Così nel 1417 è il concilio di Costanza a eleggere un pontefice, Martino V, con il quale si conclude il grande scisma, ma non finiscono – anzi si accentuano – i contrasti sulle teorie conciliariste, che vogliono il concilio superiore al papa.

Il più delle volte tuttavia queste assemblee non sono riuscite a sanare le divisioni, che al contrario spesso si sono inasprite, anche all’interno delle singole chiese. Ultimo drammatico esempio è il fallimento nel 2016 del concilio panortodosso di Creta, affondato dal patriarcato di Mosca. Aperto è poi il dibattito su natura e composizione di sinodi e concili. Ma valido resta il metodo, in un mondo attraversato da trasformazioni sempre più rapide ed esigenti che dovrebbero interpellare i cristiani.

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